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sabato 14 gennaio 2012

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Luigi Ghirri. Lezioni di fotografia

di Maurizio G. De Bonis




Una domanda che spesso sorge in ambiente fotografico (ma il quesito può essere posto anche all’interno del mondo dell’arte in generale) è la seguente: un grande fotografo può essere anche un buon docente? Il problema che fa emergere questo interrogativo non è certo cosa di poco conto, visto che a insegnare la pratica della fotografia alle giovani leve sono sempre (o quasi) dei fotografi.
Ebbene, questa è stata la domanda che inevitabilmente ci siamo posti quando abbiamo iniziato a leggere il libro intitolato Lezioni di Fotografia, edito da Quodlibet. La curiosità  che destava in noi questo volume era determinata dal fatto che le lezioni di cui si parla nel titolo sono state tenute nel 1989 da quello che è considerato uno dei maggiori autori fotografici mai apparsi nel panorama italiano: Luigi Ghirri.
Si tratta delle trascrizioni dei numerosi incontri che Ghirri ebbe con gli allievi dell’Università del Progetto di Reggio Emilia. L’idea di base dei curatori Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro è stata quella di mantenere il tono colloquiale e leggero delle lezioni e di puntare, dunque, sulla freschezza e sulla semplicità del sistema comunicativo di Luigi Ghirri che, sotto questo punto di vista, viene fuori chiaramente come docente tutt’altro che accademico e noioso.
Ma la lettura di Lezioni di Fotografia che era iniziata sotto la spinta dell’interesse nei riguardi del Ghirri didatta lentamente si è trasformata nel piacere di constatare che il fotografo emiliano più che porsi sul piedistallo tipico dell’insegnante erudito ed elitario manifestava durante le sue lezioni solo la sua identità di artista, e ancor di più di artista-teorico.
Il libro alterna fasi in cui il fotografo si sofferma anche su aspetti di carattere tecnico (macchine fotografiche, obiettivi, illuminazione) ad altre nelle quali emerge il suo autentico spirito di ricerca, la sua tendenza verso la riflessione teorica, verso il pensiero filosofico applicato non tanto alla disciplina fotografica quanto piuttosto all’atto del guardare e dell’inquadrare.
Facciamo un paio di esempi. Ghirri afferma che “la fotografia non si ferma, non si esaurisce nell’oggetto di partenza, nel soggetto ripreso” . Ed ancora, si rivolge ai suoi allievi con una frase a nostro parere significativa: “…mi piacerebbe molto che durante questo corso voi riusciste a imparare a fare una buona inquadratura, che significa già qualcosa, e soprattutto a cercare nella realtà le inquadrature che già esistono”.
Bastano già solo queste due brevi dichiarazioni per far comprendere cosa realmente  Luigi Ghirri insegnasse ai suoi allievi: non solo la tecnica del fare fotografia ma anche la disposizione psicologica di colui che guarda dentro il mirino della macchina fotografica, il quale non dovrebbe essere solo un rapace e arido registratore di una presunta realtà quanto piuttosto un raccoglitore sensibile di immagini già esistenti, un recettore che non si limita certo a dare un senso prevedibile e superficiale a quanto gli è capitato di riprendere con la macchina fotografica.
Nelle sue lezioni Ghirri insiste garbatamente su questo punto: fotografare è un “atto mentale” che non si esaurisce nella pochezza dello scatto e nella brutale selezione spaziale dell’inquadratura. Sostiene l’autore che è necessario “attivare lo sguardo e cominciare a scoprire nella realtà cose che prima non si vedevano, anche dando agli oggetti, agli elementi della realtà un altro significato. Attivare un campo di attenzione diverso”.
Parole rilevanti, queste di Ghirri, che fanno piazza pulita dell’ossessione tutta italiana nei confronti della documentazione e dell’effetto di realismo e che evidenziano in maniera inequivocabile la vera natura dell’atto fotografico.



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